Lo Stato ebraico è un segno della fedeltà di Dio

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su First Things (gennaio 2020). Ripubblicato su concessione dell’autore.

Nel 1965, in Nostra Aetate, il Concilio Vaticano II affermò che l'alleanza di Dio con il popolo ebraico è irrevocabile. Già Lumen Gentium aveva dichiarato la stessa cosa l'anno precedente, in accordo con ciò che dice San Paolo sul giudaismo biblico in Romani 11:29 ("perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili"). Nel 1980, Papa San Giovanni Paolo II identificò il giudaismo biblico col giudaismo rabbinico post-biblico. La Chiesa cattolica dunque, considera il giudaismo contemporaneo come un persistere del rapporto di alleanza con Dio: erede dei doni, delle promesse e delle chiamate di Dio.

Rimangono tuttavia molte questioni aperte. Com’è possibile che il giudaismo, a lungo ritenuto invalido per via della venuta di Cristo, sia ora considerato valido? Inoltre, il concetto stesso di giudaismo è ampio e complesso. Riformati, conservatori, liberali, ortodossi e ultraortodossi: cosa rappresenta meglio il "giudaismo"? La dottrina cristiana ci insegna che la promessa del messia si concretizza con Gesù, e il papa emerito Benedetto XVI aveva ragione nel dire che questa fondamentale affermazione cristiana non deve mettere in dubbio la validità del patto ebraico. Ma non è sempre chiaro cosa questo significhi.

Permangono inoltre le tensioni politiche e le più importanti riguardano il sionismo. Qual è lo status della terra promessa a Israele nella Bibbia? Più di due terzi dei riferimenti biblici al patto sono esplicitamente legati alla promessa della terra. Quel dono è ancora valido? Il conflitto in Medio Oriente rende questa domanda pericolosa. Tuttavia, come cattolici, dobbiamo provare a dare una risposta, come intendo provare a fare.

Per prima cosa dobbiamo considerare la promessa della terra fatta da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti (Genesi 12, 15, 17). Figure chiave, tra cui Mosè, non entrano mai in questa terra, ma non sono per questo meno ebrei. Esiste prima il popolo; Israele è una nazione prima di diventare un luogo. Inoltre, i suoi confini non sono stabili. È una vasta area in Genesi 15:18-21, e più piccola nei vari racconti in Deuteronomio 1:7, 7:22 e 11:24; Numeri 34:1-15; Ezechiele 47:13-20; ed Esodo 23:28-29. Gli studiosi discutono se questi confini siano determinati da Dio o dal contesto storico e dalle condizioni politiche. Quindi, qualunque cosa diciamo teologicamente sulla terra d’Israele, non dobbiamo pensare di poter stabilire dei confini moderni sulla base di testi biblici.

La nostra reticenza è supportata dalla storia di Abramo e Lot. In Genesi 13:5-13, sorge tra loro una disputa riguardo alla terra. Per risolverla in via amichevole, Abramo concede a Lot la prima scelta del territorio. Lot sceglie la porzione migliore e Abramo ne è soddisfatto. Così pace e giustizia sono state ripristinate, anche se a spese di Abramo. Una parte di ciò che Dio dà potrebbe dover essere sacrificata per amore dell'ideale di pace di Dio. Potremmo eventualmente notare le decise iniziative di pace intraprese dai precedenti governi israeliani in conformità allo spirito di questa storia. Di certo, la storia tiene conto del più generale interesse della Bibbia per chi è straniero in quella, palesato più di trenta volte nell’Antico Testamento. Queste espressioni sono spesso accompagnate da un resoconto del motivo per cui quella questione è così importante: "Anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto." I confini contano, ma lo stesso vale per le esigenze dello straniero. I palestinesi non sono stranieri in terra d’Israele, ma un sionismo cristiano biblicamente ben informato, nel riflettere teologicamente sulla loro situazione, dovrebbe includere un impegno in vista della loro accoglienza.

Il dono della terra ad Israele da parte di Dio richiede una purezza morale e di culto (Levitico 18:24-8; Deuteronomio 28:15-68; Numeri 35:34; Giosué 24:14-24). La purezza morale prevede di trattare lo straniero nella giusta maniera, un dovere che il popolo eletto da Dio spesso non riesce a garantire. Eppure rimangono i prescelti di Dio. L’Israele moderno può essere parte del piano di Dio, anche se è, come ogni nazione, lungi dall’essere puro, sia dal punto di vista del culto che della morale. Immaginate di giudicare la Chiesa cattolica con i criteri della Lumen Gentium del Vaticano II, che descrive la Chiesa come “l’immacolata sposa dell'Agnello immacolato". L'incapacità della Chiesa di essere all'altezza di uno standard così elevato non significa che dobbiamo opporci al cattolicesimo. Per analogia, solo perché l’Israele moderno non è esente da critiche non significa che non dovremmo essere sionisti cattolici.

Il dono incondizionato dell'elezione del popolo ebraico è il fondamento teologico del sionismo cattolico. Ma questa affermazione non deve diventare motivo di compiacimento. Levitico 18:28 contiene un forte avvertimento: "Badate che, contaminandolo, il paese non vomiti anche voi, come ha vomitato la gente che vi abitava prima di voi." I sionisti cattolici dovrebbero opporsi alla certezza escatologica di molti protestanti che immaginano lo Stato d’Israele come il compimento delle profezie sulla fine dei tempi. L’Israele moderno può, purtroppo, essere "vomitato" dalla terra. Beh, speriamo e preghiamo di no! Ma dobbiamo riconoscere che c'è un elemento drammatico e tragico nella nostra attesa del ritorno glorioso di Cristo, quando Israele diventerà un faro per le nazioni.

Nel Nuovo Testamento, la Chiesa non viene mai definita il "Nuovo Israele." Gli ottanta utilizzi di "Israele" di solito si riferiscono al popolo ebraico, alla sua politica, o alla terra. Per Sant'Agostino, l'Israele secondo la carne fu cacciato dalla terra come punizione per aver rifiutato Gesù Cristo. L'esilio e le peregrinazioni del popolo ebraico furono utili per lo scopo provvidenziale di Dio di diffondere la Scrittura che avrebbe condotto poi le nazioni a Cristo. Ma la Chiesa era diventata l'unico destinatario delle promesse di Dio.

In epoca moderna, l'attenzione ai temi chiave del Nuovo Testamento ha portato la Chiesa a rifiutare questa visione supersessionista e a riconsiderare più giustamente la disposizione dei cattolici nei confronti del popolo ebraico, e verso l'istituzione di uno Stato ebraico nel 1948. Molti testi del Nuovo Testamento sostengono l'idea che i cattolici dovrebbero approvare il sionismo. Gesù stesso era un sionista ebreo cristiano. I Vangeli collocano il suo ministero in relazione alla terra, sia all'inizio che alla fine. I racconti della nascita mettono in atto l'esilio del popolo in Egitto seguito dal ritorno alla terra della Sacra Famiglia da quella terra (Matteo 2:13-23). Durante il suo ministero, Gesù non lascia mai la terra, e si occupa di Israele e del suo popolo (Matteo 15:22-28). Lascia il compito di andare "fino all'estremità della terra" alla Chiesa raccolta intorno a lui dopo la sua resurrezione. La missione della Chiesa rispetta le aspettative riguardo al messia ebraico. Cristo rende Israele - il popolo e la terra - un faro per le nazioni in modo che tutti adorino il Dio d’Israele. I cattolici riconoscono che il popolo ebraico ha ancora un ruolo provvidenziale da svolgere, e il suo ritorno in terra d’Israele può essere parte del piano di redenzione, ancora da compiere. Un'apertura teologicamente fondata su questa possibilità è il seme del sionismo cattolico.

È allettante pensare agli ebrei come a un popolo con cui i cattolici dovrebbero essere in buoni rapporti, ma che pure non ha bisogno di alcun legame con la terra d’Israele e la cui amicizia non ha implicazioni per il sionismo. In larga misura, questo pensiero ha prevalso in Vaticano, dove l'apertura teologica al giudaismo è in concorrenza con le questioni di cui si occupavano le Chiese cristiane arabe che si sono unite a Roma nel XIX secolo. Ma molti insegnamenti di Gesù collegano gli ebrei alla terra d’Israele. Prendete per esempio: "Beati i miti, perché avranno in eredità la Terra" (Matteo 5:5). Molti studiosi della Bibbia sostengono che questo versetto sia reso meglio in questo modo: "Beati i miti, perché avranno in eredità la terra". Matteo attinge dal Salmo 37:11, in cui l'ebraico 'erets’ si riferisce alla terra d’Israele, non al mondo intero. Altri versetti nel Salmo 37 ripetono la frase "ereditare la terra". È chiaro quindi il riferimento alla terra d’Israele.

Dopo la resurrezione, in Atti 1:6-8, Gesù proclama la restaurazione del "regno d’Israele". Qualunque ascoltatore ebreo saprebbe che qui Gesù fa riferimento alla terra. Tuttavia non è il solo a concentrarsi sulla terra. San Paolo fa riferimento al dono della terra in Atti 13:19 come a uno dei potenti atti di Dio che culminano (ma non terminano) in Gesù Cristo. Lo stesso Paolo chiama questi atti "irrevocabili" in Romani 11:29, e come chiarisce l'Antico Testamento, uno di questi atti è il dono della terra. Questi e molti altri passaggi indicano una cosa: i primi seguaci di Gesù sapevano che la terra era un aspetto centrale nel Vangelo, sia per la sua promessa al popolo ebraico che per il suo rapporto con la restaurazione messianica e la redenzione finale.

È vero, alcuni riferimenti presenti nel Nuovo Testamento sembrano contrapporsi a questo risalto dato alla specificità della terra. Ad esempio, il tempio è identificato come il corpo di Cristo risorto, che si trova ovunque si celebri l'Eucarestia. Tuttavia un’affermazione dogmatica fondamentale della Chiesa era che l'universalismo cristiano fosse fondato sulla persona storica di Gesù di Nazaret. E proprio come Gesù Cristo rimane centrale nella sua particolarità, così è anche per la terra e il popolo ebraico, i quali hanno caratterizzato la sua vita terrena.

La Pontificia Commissione Biblica ha confermato la promessa della terra nel 2001. Ha riconosciuto tradizioni differenti riguardo al significato della terra nel Nuovo Testamento, ma ha dedotto che nessuna di queste tradizioni nega le promesse presenti nell'Antico Testamento. La Commissione ha sostenuto: "Non dovrebbe essere dimenticato… che una terra specifica è stata promessa da Dio a Israele e ricevuta in eredità." Il sionismo cattolico che vi presento conferma questa promessa e riconosce la provvidenziale importanza della creazione dello Stato d’Israele.

Un sionista cattolico responsabile, tuttavia, deve conciliare quest'affermazione con la giustizia che pure è richiesta nella Bibbia, e che risuona sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. I cristiani palestinesi scrivono del costo dell'esilio e della perdita della terra. Comprendere come affrontare queste questioni in linea con il ritorno del popolo ebraico rimane difficile. Un sionista cattolico riconosce le limitazioni imposte dalla dura realtà politica. Ma le sofferenze palestinesi non possono essere ignorate.

Poi c'è la spinosa questione dello Stato-nazione. Alcuni sionisti cristiani, come Pat Robertson, dicono in sostanza: "Se ti opponi allo Stato d’Israele, ti opponi a Dio." Ciò fonde in un unico concetto il popolo ebraico, la terra promessa, e il moderno Stato-nazione d’Israele, una coincidenza che non ha garanzie storiche o teologiche.

Storicamente, il sionismo non ha avanzato un’unica visione dello Stato-nazione. I principali leader sionisti, tra cui Leon Pinsker, Vladimir Jabotinsky, Theodor Herzl, Ahad Ha'am e David Ben-Gurion, immaginavano il futuro Stato ebraico in Palestina come binazionale o parte di un più ampio quadro plurinazionale. Dal 1948, i sionisti hanno raccontato una storia diversa, più teleologica, che culmina nello Stato d’Israele come lo conosciamo oggi. Tuttavia, molti sionisti ebrei contemporanei, di destra e di sinistra, sono fortemente critici rispetto alle azioni dello Stato ebraico. Non c'è dubbio che debba esserci una qualche forma di autorità del popolo ebraico nella terra d’Israele perché questo dice la visione biblica. Ma un sionista cattolico non può credere che questa forma di autorità possa essere lo Stato-nazione nella forma in cui si configura attualmente.

Il Papa emerito Benedetto XVI ha affrontato la questione dello Stato-nazione nel 2018: "Uno stato prettamente inteso teologicamente, cioè uno Stato di fede ebraica [Glaubenstaat] che si considera il compimento teologico e politico delle promesse, è impensabile nella storia se consideriamo la fede cristiana ed è in opposizione alla comprensione cristiana delle promesse." Cioè, il cattolicesimo nega qualsiasi appoggio escatologico dello Stato d’Israele. Benedetto XVI non nega che Dio abbia avuto un ruolo nel ricondurre il popolo ebraico alla terra che gli era stata promessa, ma non accetta Israele come Stato politico messianico. Farlo darebbe autorità divina ad uno Stato-nazione, un pericoloso precedente. All'interno di un sistema di valori cristiano, lo Stato-nazione non può "adempiere" le promesse di Dio. Per i cristiani, è Gesù ad essere il compimento di queste promesse per la sua morte e resurrezione, già avvenute, e per la sua seconda venuta, che non si è ancora compiuta. Tuttavia, continua Benedetto XVI, con un modo di pensare correttamente informato, da un punto di vista biblico, si può riconoscere che lo Stato d’Israele "esprime la fedeltà di Dio al popolo d’Israele."

Il mio sionismo cattolico segue questa linea di analisi teologica. Afferma che il popolo ebraico cerca giustamente una forma di governo in armonia col suo benessere nella terra d’Israele, anche se quale questa forma di governo dovrebbe essere è una questione di dibattito legittimo. Lo sviluppo del popolo ebraico in terra d'Israele è provvidenzialmente voluto da Dio, ma esso non deve limitarsi alle specifiche forme politiche tuttora in vigore. Questa posizione incerta nei confronti dello Stato d’Israele non significa indecisione o mancanza di sostegno nel caso in cui l'esistenza di Israele venga minacciata. Attingendo alle risorse morali della tradizione cattolica, un sionista cattolico può affrontare le controverse questioni politiche dell’Israele contemporaneo con uno spirito positivo. La dottrina sociale cattolica favorisce le democrazie e l'attuale forma di governo in Israele ne fa una delle poche democrazie del territorio.

Il sionismo cattolico differisce dalle forme di sionismo protestante che fanno un'esegesi letterale di Apocalisse 20:2, che descrive un periodo millenario di governo messianico durante il quale Satana è "legato" e il suo potere limitato. Il sionismo cattolico non vede la creazione d’Israele nel 1948 come l'inizio della fine dei tempi, perché lo sono la morte e la resurrezione di Gesù. Non sostiene una resa dei conti "apocalittica" in Medio Oriente. Né prende parte al clima anti-arabo, anti-musulmano o anti-palestinese, che si trova talvolta tra i sionisti cristiani. Infine e soprattutto, il sionismo cattolico che appoggio, sostiene il diritto dei palestinesi alla loro sovranità e autodeterminazione, nonostante i fallimenti e la malafede di alcuni leader palestinesi.

Ad ogni modo il sionismo cattolico condivide una caratteristica centrale del sionismo protestante. Afferma infatti che la promessa fatta ad Abramo in Genesi è ancora valida ai nostri giorni. La fondazione dello Stato d’Israele nel 1948 ha un significato teologico. Per la provvidenza di Dio, gli ebrei ora hanno il diritto di vivere liberamente e professare la loro religione nella Terra promessa. Una visione sionista massimalista, che troviamo tra alcuni gruppi protestanti, parla dei confini della "Grande Israele" e ritiene che in nessuna parte di quel territorio la sovranità possa essere condivisa con i palestinesi. Tende alla divinizzazione dell'attuale Stato d’Israele come esecutore e forma del piano di Dio, e sostiene che l'eschaton sia iniziato nel 1948. Un sionismo più moderato dice il contrario. I confini d’Israele, la sua forma di governo, così come il posto del popolo palestinese e la sua autonomia politica in quella terra rimangono questioni aperte, che devono ricevere una risposta oculata, giusta e pacifica.

Manifestare un consenso rispetto al sionismo cattolico non sarà facile. Alcuni penseranno che qualunque forma di sionismo tenda necessariamente a quella tipica dei protestanti. Un sionismo cattolico, anche in piccola parte, sarà respinto da molti musulmani e da alcuni cattolici e cristiani del Medio Oriente. È anche probabile che sia stigmatizzato dai diplomatici della Chiesa di Roma, che si ingegnano tra una vasta gamma di questioni nel loro sforzo di proteggere le minoranze cristiane in Medio Oriente e promuovere una soluzione pacifica al conflitto arabo-israeliano. Ma la politica di mediazione della Santa Sede tra tutte le comunità per garantire la sicurezza cristiana in Medio Oriente non ha avuto finora molto successo; non ha infatti assicurato una soluzione pacifica e giusta al conflitto arabo-israeliano. In breve, la reticenza cattolica nei confronti del sionismo non ha reso la Chiesa un efficace mediatore di pace in Medio Oriente. Ma ancor più importante, nonostante la Chiesa debba essere coinvolta nella sicurezza delle comunità cristiane nei Paesi musulmani, non può tacere sulla promessa evangelica di una nuova vita in Cristo, che, come insegna San Paolo, si basa sull'affidabilità di Dio come manifestazione delle irrevocabili promesse fatte al popolo d’Israele, tra cui quella della terra.

Il sionismo cattolico manca del pieno appoggio allo Stato d’Israele che invece contraddistingue molte forme di sionismo protestante. Ma questo "agnosticismo" rispetto all’escatologia non deve necessariamente comportare un agnosticismo circa la creazione dell’Israele moderno. Come cattolico, trovo forti garanzie teologiche nel confermare la fondazione dello Stato d’Israele come luogo sicuro per il popolo ebraico. L'esistenza dello Stato ebraico è un segno della fedeltà di Dio alla sua gente, e assicura la terra in cui possono vivere adeguatamente secondo la Torah.

Traduzione: Dario Mondola

Gavin D'Costa è Professore Emerito di Teologia Cattolica presso l'Università di Bristol e Professore di Relazioni ebraico-cattoliche presso la Pontificia Università “San Tommaso d'Aquino” a Roma. È Consultore presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Le pubblicazioni di D'Costa includono Catholic Doctrines on the Jewish People after Vatican II (2019) e Vatican II: Catholic Doctrines on Jews and Muslims (2014).

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