“Luce per le genti e gloria per Israele”

Ebrei e cristiani nell’unico progetto di Dio

Conferenza in occasione della Giornata dell’Ebraismo

Frascati, 17 gennaio 2011

1. Un anno fa: la visita di Papa Benedetto nella sinagoga di Roma

Esattamente un anno fa, il 17 gennaio 2010, per la seconda volta in una storia bimillenaria, il capo della Chiesa Cattolica ha messo piede nella sinagoga di Roma. Dopo la storica visita di Giovanni Paolo II, anche Benedetto XVI ha voluto rendere omaggio ad una delle più antiche comunità ebraiche fuori di Israele, presente nella Città eterna già prima che arrivassero i primi cristiani.

Con questo gesto Papa Ratzinger ha dato ulteriore prova della sua vicinanza e del suo affetto per il popolo ebraico. Ha rinnovato l’impegno assunto dalla Chiesa Cattolica pressoché 50 anni fa, quando il Concilio Vaticano II ha aperto una nuova fase nel tormentato rapporto tra cattolici ed ebrei, Chiesa e Sinagoga.

In questa serata vogliamo cogliere alcuni degli stimoli che Papa Benedetto ha dato nel discorso tenuto in quel giorno. Innanzitutto vorrei riflettere con voi sulle basi del rapporto ebraico-cristiano che emergono dalle Sacre Scritture. La ricerca biblico-teologica, infatti, è lo strumento essenziale per arrivare ad una migliore comprensione, non solo dell’altro ma anche di se stesso. Il Papa ci ha incoraggiati a compiere questo sforzo, dicendo: “La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia... il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo.”

Lo studio della Bibbia deve essere, poi, completato con la ricerca storica, per togliere l’oscurità che ancora avvolge troppi aspetti del nostro comune passato. Queste le parole del Santo Padre: “La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono di tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo”. Ricordando il periodo più tragico della comunità ebraica, cioè le persecuzioni nazifasciste che anche a Roma hanno causato la perdita di molte vite, ha aggiunto: “La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.”

Inizialmente avevo intenzione di elencare ora alcuni avvenimenti del passato che ancora oggi sono pietre d’inciampo nel dialogo ebraico-cristiano. Circa un mese fa, però, è stata divulgata una notizia che mi permette, invece, di raccontare l’esempio positivo di un uomo che, in circostanze difficili, ha agito come vero fratello nei confronti dei suoi concittadini ebrei. Questo caso ci tocca in modo particolare perché si è verificato proprio in questa diocesi tuscolana.

2. Un giusto tra le nazioni: padre Raffaele Cubbe

Il 14 dicembre dell’anno scorso, l’istituto “Yad Vashem” di Gerusalemme ha consegnato, nella residenza del Gesù a Roma, la medaglia “Giusto fra le nazioni”. Con questo titolo si commemorano quanti, durante il periodo della Shoah, hanno rischiato la propria vita per salvare anche una sola persona. In questa occasione la medaglia è stata consegnata alla memoria di un sacerdote gesuita, il Padre Raffaele Cubbe. Tra 1942 e 1947 egli è stato rettore del “Nobile Collegio di Villa Mondragone”, all’epoca un convitto per i figli delle classi sociali più elevate.

Durante l’occupazione di Roma, soprattutto dopo il 16 ottobre 1943 quando i nazisti rastrellarono il ghetto e deportarono più di 1.000 persone ad Auschwitz, molte famiglie cercavano rifugio nella Campagna romana, anche nei pressi di Frascati. Fu in quelle circostanze, che tre ragazzi ebrei, Marco Pavoncello ed i fratellini Graziano e Mario Sonnino, giunsero nel Collegio di Mondragone. Padre Cubbe, ben cosciente della loro origine ebraica, li accolse, nascondendoli  per più di tre anni tra gli altri alunni cattolici. Grazie all’aiuto eroico e disinteressato di questo sacerdote, i tre fanciulli sopravissero gli anni della guerra, potendo, inoltre, continuare i regolari studi scolastici. E non solo: Padre Cubbe si dimostrò sempre rispettoso della loro identità ebraica, per esempio consentendo loro di osservare le proprie regole alimentari.

Nel giorno dell’onoranza (Padre Cubbe morì già nel 1983), uno dei tre bambini di allora, Marco Pavoncello, ha raccontato come si svolgeva la vita del collegio: “Il clima era sereno. Si mangiava, si giocava, si studiava, si andava in chiesa. Bisogna dire una cosa: mai, anche negli anni successivi, c’è stato un tentativo di conversione, una qualche forzatura, come anche mai è avvenuto alcun atto di antisemitismo, né tra i ragazzi né tra i preti.

Alla domanda sulle sue emozioni per il defunto rettore, a distanza di 65 anni, ha detto: “Ricordare la figura di Padre Cubbe mi rende felice ed emozionato. L’emozione scaturisce dal ricordo di un momento terribile per noi ebrei, la persecuzione nazi-fascista; la felicità deriva dal poter finalmente ringraziare un uomo cui io e la mia famiglia siamo infinitamente riconoscenti.”

Padre Cubbe è stato un personaggio straordinario, una figura che, grazie alla sua fede e alla sua ricca cultura, a differenza di tanti altri, sapeva che cristiani ed ebrei sono membri della stessa famiglia di Dio.

Trovo importante ricordare questo gesto eroico, non solo per onorare la sua memoria, ma anche perché il suo esempio ci aiuti a combattere l’ignoranza e l’indifferenza che anche oggi impediscono di riconoscere nel volto dell’altro il fratello.

3. Il popolo d’Israele e le genti nell’Antico Testamento

Un’unica conferenza non può esaurire tutte le testimonianze bibliche sull’intimo legame tra il popolo ebraico e la Chiesa. Dovendo compiere una scelta, ho voluto presentare stasera quei concetti che più facilmente si imprimono nella memoria per la loro concretezza figurativa. Vorrei, pertanto, presentare tre immagini, una presa dall’Antico, le altre due dal Nuovo Testamento, le quali - ciascuna a modo suo - esprimono l’unico progetto divino che abbraccia sia ebrei che cristiani: il monte sul quale si ritrovano come pellegrini tutti i popoli del mondo; il muro che una volta divideva l’umanità, finalmente abbattuto da Gesù Cristo; l’albero, nutrito da un’unica radice, che dovrebbe risplendere nell’abbondanza del suo fogliame.

a) Il pellegrinaggio dei popoli (Michea 4)

The Mountain of the LordL’evento centrale di tutta la rivelazione biblica è l’incontro di Dio con l’uomo, più precisamente, con un gruppo particolare di persone, il popolo di Israele. Questo popolo, nel corso della sua storia, ha scoperto le leggi secondo le quali il mondo è creato e persiste e le norme che regolano la convivenza sociale. Israele ha provato a rispettare queste regole, non solo nel comportamento etico del singolo, ma soprattutto nella vita dell’intero popolo. Quotidianamente, per moltissimi secoli, si è sforzato di realizzare la giustizia e la pace tra i singoli membri della società e ha scoperto così, attraverso successi e fallimenti, ciò che Dio desidera, il suo progetto per la salvezza degli uomini. Queste esperienze sono state poi trascritte nel codice della Torah, che non è solo e primariamente “Legge”, ma piuttosto “Insegnamento” di una vita riuscita.

Però, Israele era sempre un piccolo popolo e il mondo governato da nazioni molto più potenti. Per costruire la pace in una dimensione globale non era sufficiente che un solo popolo praticasse questo modo di vivere alternativo. Perciò, le persone più lungimiranti si chiedevano: non dovrebbero anche le nazioni pagane conoscere le regole fondamentali della Torah? Non dovrebbero anch’esse accettare l’insegnamento di Dio, senza necessariamente diventare ebrei? Ma in quale modo potrebbero giungere alla conoscenza del progetto salvifico di Dio?

Ispirati da domande come queste, i profeti di Israele svilupparono una nuova teologia delle genti, una visione che abbracciava, accanto al popolo di Dio, anche le nazioni pagane. Profetizzavano una grandiosa migrazione dei popoli, non mirata alla conquista di territori e di ricchezze, ma alla ricerca di un bene più prezioso: la pace. Il primo a formulare l’idea del pellegrinaggio dei popoli fu il profeta Michea:

Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli. Ad esso affluiranno i popoli, verranno molte genti e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore e al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra molti popoli e arbitro fra genti potenti, fino alle più lontane. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra. (Mi 4,1-3)

Lasciamoci un attimo impressionare da questa meravigliosa visione, dall’enorme ottimismo che traspare da queste righe. Il profeta è convinto che Dio progetta pensieri di salvezza per tutti i popoli del mondo! E’ fiducioso che l’umanità intera va incontro ad un destino felice, che pace, non guerra, sarà l’ultima parola della storia umana.

Ma da che cosa sono attratti i popoli? Che cosa li stimola ad intraprendere un viaggio faticoso che li riunirà, tutti insieme, sul monte Sion, nella capitale del popolo d’Israele? Non sono mercanti in ricerca di tesori! Non sono turisti che ammirano la bellezza di edifici e piazze! Non è neppure il magnifico culto con i sacrifici, le processioni, i canti, le splendide vesti dei sacerdoti che li attira! Tutto ciò, e ancora di più, esiste anche presso di loro. Le genti, invece, cercano qualcosa che non trovano altrove, il luogo dove viene praticata la giustizia, dove, nella convivenza sociale, esiste l’equilibrio tra libertà e solidarietà, dove, sotto la signoria di Dio, regna una pace gioiosa.

Una volta arrivati sul monte, che cosa succede con i popoli? Fanno la stessa cosa che Israele, da sempre, ha fatto: imparano la Torah - non tutti i dettagli della Legge, ma quanto necessario per plasmare le relazioni sociali con uno spirito nuovo. Non si convertono all’ebraismo, ma mantengono la loro identità; tornano in patria per realizzare uno stile di vita radicalmente diverso. Non preparano più la guerra, perché non si sentono più minacciati dagli altri che hanno imparato la stessa lezione. L’osservanza dei comandamenti divini li ha liberati dalla paura che è la base di ogni aggressione.

Il risultato, la felicità di una coesistenza pacifica, è espresso in una scena idilliaca: “Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, perché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato!” (Mi 4,4)

Questa meravigliosa visione (quanto bene si addice all’ambiente dei Castelli Romani!) è un invito rivolto a tutti gli uomini, una proposta da accogliere liberamente. Però, non essendo sicuro della reazione degli altri, il profeta sente il bisogno di indirizzare un ulteriore ammonimento ai propri connazionali: “Tutti gli altri popoli camminino pure ognuno nel nome del suo dio, noi cammineremo nel nome del Signore, nostro Dio, in eterno e per sempre.” (Mi 4,5)

Non c’è garanzia che le altre nazioni accettino l’invito. Tuttavia, anche nel caso che lo respingano, Israele non dovrebbe esitare ad andare avanti, a praticare, già ora, quella pace che gli altri godranno solo “alla fine dei tempi”. Dovrebbe realizzare la giustizia al proprio interno e mostrare quali sono i frutti di una vita vissuta secondo i princìpi della Torah.

Il progetto salvifico di Dio è uno solo per tutti i popoli; ciononostante, uno deve iniziare ad accoglierlo, deve essere pioniere, nella speranza che, affascinati dal suo modello di vita, gli altri seguiranno l’esempio.

4. Ebrei e cristiani secondo il Nuovo Testamento

Per tanti secoli la visione dei profeti sul pellegrinaggio dei popoli rimase un’attesa non soddisfatta. Il divario tra il popolo ebraico e le nazioni pagane sembrava incolmabile, il progetto divino di riunire tutti gli uomini in una famiglia un’utopia.

Tanto più grande fu la sorpresa quando un singolo uomo, non un sacerdote del tempio di Gerusalemme, ma un semplice falegname, cittadino della disprezzata Galilea, riuscì ad abbattere, una volta per tutte, il muro che divideva in due l’umanità.

a) Il muro di separazione, abbattuto (Efesini 2,12-14)  

Gesù stesso ebbe pochi contatti con i pagani; i Vangeli raccontano di tre soli incontri con persone non ebree: un centurione romano gli chiede di guarire il suo servitore malato (Mt 8,5-13); una donna cananea lo prega per la figlia indemoniata (Mt 15,21-28); una malfamata donna Samaritana lo incontra al pozzo e gli dà da bere (Gv 4,1-42). Gesù non cerca il contatto con queste persone, ma le incontra casualmente, oppure loro lo rintracciano perché hanno sentito parlare della sua potenza guaritrice. Spesso si mostra restio ad accogliere la richiesta; una volta la reazione è particolarmente riluttante: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini” (Mt 15,26).

Gesù era convinto che la sua missione fosse quella di dare “il pane ai figli”, cioè di annunciare la parola di Dio al popolo di Israele, di guarire le sue ferite per restituirlo quale società in cui si rispecchiano la giustizia e la misericordia divine.

Nello stesso tempo, però, si lascia anche impressionare dalla fiducia che questi pagani mostrano nei suoi confronti, dal loro grande desiderio di vedere la salvezza, al punto di dover confessare che non ha trovato tra i propri connazionali una fede ugualmente grande (cfr. Mt 8,10; 15,28). L’incontro con questi due, tre pagani rafforza in Gesù la convinzione che la vecchia profezia sta per compiersi: “Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli.” (Mt 8,11)

Questo presagio, tuttavia, si sarebbe compiuto solo dopo la morte di Gesù, grazie al miracolo di Pasqua che aveva dato origine alla comunità dei suoi discepoli. Una moltitudine di persone, che già prima aveva apprezzato la fede ebraica ma esitato ad accoglierla con tutti i suoi precetti, chiedeva ora di entrare nella comunità. Riflettendo sul senso della vita e della morte di Cristo, gli apostoli arrivarono alla conclusione che non potevano respingere la loro richiesta, dovevano accoglierli ed insegnare loro quella forma di vita che essi stessi avevano imparato da Gesù.

Nei successivi decenni, il numero dei cristiani non ebrei crebbe in numero esponenziale, in modo tale da cambiare sostanzialmente la composizione della comunità: ad un tratto si trovavano insieme ebrei circoncisi, cresciuti nella fede ebraica e osservanti dei comandamenti mosaici, e pagani non circoncisi, perciò non tenuti a rispettare tutti i comandamenti. Sappiamo anche in quale città, per la prima volta, esisteva una tale comunità mista: Antiochia in Siria. I vicini lo notarono con stupore e chiamarono i membri della comunità con un nome nuovo: “i cristiani”, i seguaci di Cristo.

La fede in Gesù Cristo aveva generato qualcosa di totalmente nuovo, una società nuova. I due gruppi umani, a memoria d’uomo nettamente divisi - da un lato gli ebrei quale popolo eletto, dall’altro i pagani, ex-adoratori di idoli - erano finalmente radunati intorno alla stessa mensa, mangiavano e pregavano insieme, condividevano tutte le necessità della vita. Il muro di una millenaria separazione era stato abbattuto.

L’apostolo Paolo, nella sua lettera alla comunità di Efeso, celebra questo miracolo con le seguenti parole: 

In quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. (Ef 2,12-14)

Gesù Cristo è colui che, mediante la totale obbedienza alla volontà del Padre, mediante l’offerta della propria vita, ha superato la separazione tra “i due”, giudei e pagani, creando un’unità e una pace che prima non erano immaginabili.

b) L’uliveto, una radice e molti rami (Romani 11)

Con la nascita della comunità cristiana, composta da ebrei e pagani, non tutti i problemi furono risolti. La continuata esistenza di ebrei che non riconoscevano Gesù come il loro Messia creava un serio problema teologico: la Chiesa formava un altro, un secondo popolo di Dio? Oppure prendeva addirittura il posto di Israele? Un unico popolo di Dio o due popoli? Era, questa, l’incalzante domanda che attendeva una risposta.

Per San Paolo il fatto che tanti pagani si erano convertiti al Dio di Israele, realizzando così la visione escatologica dei profeti, rappresentava un grande mistero. Finalmente, le genti erano arrivate sul monte Sion, da Oriente e da Occidente, si erano sedute alla mensa di Abramo ed avevano iniziato ad imparare le vie del Signore. Però, ciò non doveva essere motivo di vanto, di sentirsi superiori rispetto ai membri del popolo ebraico che non erano entrati nella comunità. Per combattere il sentimento di superbia che spesso contraddistingue i neo-convertiti, l’apostolo, nella sua lettera alla comunità di Roma, usa l’immagine dell’albero d’ulivo. Con ciò riprende una metafora dei profeti, che avevano paragonato Israele ad un ulivo verdeggiante, bello e maestoso nella pienezza del suo fogliame (Ger 11,16; Os 14,7).

Ponendo al centro questa immagine, l’apostolo propone una prospettiva che supera le speculazioni sull’elezione degli uni e la reiezione degli altri. Ciò che conta non sono i singoli rami, ma l’integrità dell’albero, cioè del popolo di Dio. Come l’olivo (un albero particolarmente longevo) si nutre grazie alle sue radici, anche il popolo di Dio ha radici profonde, è radicato in una lunga storia che parte da Abramo e Sara, passa per Mosè e Davide, giunge e culmina in Gesù. Questa radice è “santa” e, perciò, lo è anche l’albero con tutti i suoi rami, cioè i singoli credenti (Rom 11,16).

Con grande enfasi, San Paolo ammonisce i nuovi membri della comunità a non vantarsi della grazia ricevuta. Dovrebbero sempre ricordare che provengono da un oleastro selvatico e, senza merito alcuno, sono stati innestati nel “santo albero” di Israele. Come possono rallegrarsi della propria salvezza nel momento in cui sono stati tagliati altri rami, tra quelli originali? Dovrebbero, piuttosto, considerare la propria fortuna come un incarico nei confronti di quelli che non fanno parte della Chiesa. Dovrebbero sforzarsi di dimostrare con i fatti la salvezza ricevuta, cioè plasmare tutti i campi della vita secondo il grande comandamento dell’Amore. Solo questo potrebbe convincere i seguaci di Mosè che in Gesù Cristo le promesse dei profeti si sono pienamente realizzate.

San Paolo spera nella salvezza di tutto Israele (Rom 11,26), desidera che l’albero rinverdisca nella totalità dei suoi rami per portare più frutti possibili. Non dovremmo, pertanto, accontentarci della situazione attuale in cui Chiesa e Israele formano due gruppi chiaramente distinti; dovremmo vederla piuttosto come un segnale che la nostra fede è ancora carente, la nostra testimonianza di Cristo non pienamente convincente. Detto in altro modo: non dovremmo accontentarci della grazia ricevuta, ma farla trasparire sempre di più nei nostri atti e nelle nostre parole.

5. “Luce per le genti e gloria del popolo d’Israele” (Lc 2,32)

Quando Maria e Giuseppe, 40 giorni dopo la nascita, portarono Gesù nel tempio di Gerusalemme, il vecchio Simeone profetizzò: questo bambino sarebbe stato “luce per le genti e gloria del popolo d’Israele” (Lc 2,32). Due mila anni più tardi, la prima parte dell’oracolo è ampiamente realizzata: il Vangelo è stato portato negli angoli più remoti della terra. La seconda parte, invece, sembra ancora lontana dal compimento: sono pochissimi gli ebrei che guardano con orgoglio il più grande figlio del loro popolo. Nello stesso tempo, tra i cristiani è venuta a mancare la consapevolezza che l’ebreo Gesù è il ponte che collega la Chiesa con la Sinagoga.

Quale immagine potrebbe esprimere la desiderata unità tra cristiani ed ebrei, tra la comunità dei seguaci di Gesù e il “popolo dell’alleanza”?

Durante il periodo di Natale, nella Basilica di Marino si poteva ammirare un presepe particolare: in mezzo a Maria e Giuseppe si trovava il bambino Gesù che, però, non giaceva nella mangiatoia, ma era sorretto da un libro. Egli è l’interprete della Scrittura, ha tradotto le sue lettere in parole e gesti vivi, ha compiuto tutto ciò che la Torah di Israele prevedeva. Questa immagine, con tanta semplicità, illustra un pensiero del teologo Ratzinger: Gesù è “la Torah in persona”, l’incarnazione della Torah, la volontà divina diventata visibile nella storia di un uomo.

Un’altra immagine, più sofisticata, è stata realizzata da Joseph Schele, architetto ed artista che per molti anni, fino alla sua morte, ha abitato a Villa Cavalletti. Da un tronco di olivo, non molto grande, ha scolpito una croce, destinata ad una comunità che si raduna per l’Eucaristia intorno all’altare.

La base della croce è formata dal rotolo della Torah; esso fonda e sostiene la Croce, chiarisce il suo significato. La Croce proviene dalla Torah e la sovrasta, proteggendola e benedicendola. Tutti e due si innalzano su un’altura: il monte Sinai, dove Dio ha rivelato il suo volere al popolo d’Israele, e nello stesso tempo il monte Golgota, dove Dio ha rivelato il suo amore definitivo nella passione di Cristo.

Questa scultura illustra l’intima unione tra la Torah scritta, una volta per tutte, sul rotolo e quella incarnata nella persona di Gesù. Vorrebbe stimolare il desiderio della riconciliazione tra i due popoli, chiamati a testimoniare insieme la pace di Dio.

Vorrei concludere queste riflessioni con una parola, direi profetica, che l’allora cardinal Ratzinger ha espresso in una corrispondenza privata del 2003. Ecco le sue affermazioni sul rapporto Chiesa - Israele: “Benché Dio si sia riservato l’unità definitiva, e - a quanto pare - la conservi sino alla fine dei tempi, ciononostante dobbiamo già da ora andare incontro a questa unità e metterci al servizio di quella pace che Cristo ha costruito con il suo sangue.”

© Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio 2011

prof. Michael P. Maier

Michael P. Maier, sacerdote e membro della Comunità Cattolica d'Integrazione, insegna Antico Testamento alla Pontificia Università Gregoriana e collabora alla Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio (Pontificia Università Lateranense).

 


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